Cultura: sinistra, destra… e gli evangelici?

Lo stimabile Lorenzo Scornaienchi, pastore evangelico e studioso del Nuovo Testamento, mi invita a rispondere a un quesito non banale, anzi di rilevante attualità. In buona sostanza Lorenzo, in una garbata conversazione sulla mia pagina di Facebook, dichiarandosi socialista (n. b.: sia però ben chiaro che si tratta di una persona per bene) si pone l’interrogativo di come possa esistere una cultura di “destra”. La domanda, a saper ben leggervi dentro, presume la persuasione che l’unica cultura possibile sia quella “non di destra” o, per essere più espliciti, sia quella “di sinistra”.

Avere convinzioni salde, come questa di Lorenzo, fa certamente bene alla salute poiché ingenera un rasserenante senso di sicurezza. Tuttavia mi corre l’obbligo, essendo stato sollecitato, non dico di dare una risposta esaustiva (ne sarei capace?) ma, almeno, di tentare di esporre un mio punto di vista.

Premetto che a mio parere oggi i termini ‘destra’ e ‘sinistra’ hanno perduto molto del loro significato e la politica, così credo, sembra essersi ridotta a un’ombra di quella che avrebbe dovuto e potuto essere, mortificata com’è in un gioco di poteri, d’interessi, di traffici di voti e così via. Preferisco partire dalla cittadella della storia nella quale, anche per motivi connessi alla mia professione, mi sento più a mio agio.

Iniziamo dal famigerato ventennio ‘nero’ del quale oggi si straparla prevalentemente per stereotipi. Qui, a proposito di Cultura, incontriamo il filosofo Giovanni Gentile, che fu ministro dell’istruzione e benemerito fondatore e coordinatore della monumentale Enciclopedia Treccani; incontriamo anche Giuseppe Bottai, anch’egli ministro e promotore della rivista Primato sulle cui pagine s’aggregarono le firme di ben 250 intellettuali di prestigio[1]. Il tratto comune tra costoro fu l’organicità, l’osmosi tra l’attività dell’intellettuale e l’afferenza di questo allo Stato, allora identificato con il partito (fascista). Paradossalmente questa stessa organicità la riscontriamo anche in chi del fascismo fu vittima cospicua: Antonio Gramsci. Nel 1949 fu edito il suo Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, volume che raccoglieva numerose pagine dei suoi Quaderni dal carcere dove, tra l’altro, si disegnava il profilo di un intellettuale la cui attività veniva concepita come un impegno nell’ambito del partito (comunista) e per l’avanzamento di questo. Balza evidente una paradossale ma profonda coincidenza di pensiero tra i tre personaggi.

Il 21 aprile del 1925, nella ricorrenza del “Natale di Roma”, Giovanni Gentile pubblicò sul quotidiano Il popolo d’Italia il Manifesto degli intellettuali fascisti nel quale l’attività di chi elaborava cultura veniva fatta coincidere con la militanza di partito. A questo Manifesto reagì senza mezzi termini Benedetto Croce con un breve ma denso scritto dal titolo La protesta contro il “Manifesto” degli intellettuali fascisti[2]. Qui il filosofo abruzzese, ma napoletano d’adozione, si pronunciava nettamente contro ogni forma di ‘politicizzazione’ dell’attività intellettuale; poiché la cultura – così egli ragionava – è esercizio di libertà, l’uomo di pensiero non si sarebbe mai legato a una formula politica riservandosi una totale autonomia.

Dunque, per riassumere e chiarire, in merito a cultura e politica s’ebbero due atteggiamenti diametralmente opposti: quello fascista e gramsciano della sinergia organica (che si traduce di fatto in subordinazione della prima alla seconda) e quella crociana della totale separazione delle due sfere.

Veniamo ora alla situazione italiana che a Scornaienchi sta a cuore indagare. Partiamo dall’accordo di Jalta del febbraio 1945. A sèguito di questa intesa i vincitori del secondo conflitto mondiale disegnarono il destino dell’Europa all’indomani del loro trionfo. Com’è noto si stabilì di separare il vecchio continente in due metà: l’una sotto la sovranità sovietica, quindi con economia socialista (comunista); l’altra sotto la sovranità statunitense, quindi con economia liberale. Sappiamo che la dittatura sovietica crollò miseramente nel 1989 lasciando sul terreno macerie, miserie e copioso sangue di martiri cristiani. In Italia il Partito Comunista Italiano aveva già inaugurato un atteggiamento d’insofferenza per il pugno di ferro di Mosca dopo essersi però a lungo avvalso del fiume di danaro che da questa in precedenza era giunto a sostegno delle sue attività. Nel febbraio del 1991 i comunisti italiani, riuniti in congresso, si divisero in due gruppi: il primo, maggioritario, s’affrettò a prender le distanze dalla dittatura da poco crollata e mutò persino il suo nome; l’altro, ribadendo invece la denominazione, s’impegno a una ‘rifondazione’ del comunismo.

Dentro la vicenda del PCI v’è tutta una parallela enorme organizzazione culturale messa in atto dal partito e che vide protagonista “il migliore” tra i comunisti: Palmiro Togliatti[3]. Questa organizzazione culturale, insieme a un enorme impegno per acquisire “l’egemonia” nei luoghi di elaborazione delle idee (scuole, università, giornali, cinema, magistratura, etc.), ebbe un enorme successo, proporzionale all’impossibilità di fatto per i comunisti di andare al governo posto che, iniziando dalle elezioni del 1948, gli Stati Uniti d’America, vincitori del conflitto mondiale, mal avrebbero tollerato una soccombenza della Democrazia Cristiana la quale, rassicurando il colosso d’oltreoceano, s’atteggiava a “diga contro il comunismo”. Dunque se la strada verso il potere era sbarrata o, almeno, difficilmente impraticabile nell’immediato, bisognava investire nella cultura, facendo rete, accogliendo benevolmente intellettuali anche reduci dal fascismo, sostenendo i propri simpatizzanti, accompagnando i sodali nelle loro carriere. Testate di giornali, case editrici, movimenti studenteschi, cattedre universitarie, interi atenei, associazioni di magistrati furono fecondissimo terreno di radicamento per la ‘sinistra’. L’esempio dell’Istituto Gramsci è particolarmente encomiabile per organizzazione, impegno culturale e incidenza; questo, in piena coerenza alla sua denominazione, non poteva non produrre intellettuali ‘organici’. Sull’altra sponda la Democrazia Cristiana avanzava una scialba risposta culturale preferendo affidare l’arduo compito alla Chiesa Cattolica, ben attrezzata in materia d’istruzione e di definizioni di pensiero.

Chi ha vissuto gli anni di cui stiamo parlando ricorderà che, in generale, un polo culturale d’orientamento democristiano non avrebbe avuto soverchia difficoltà a dar spazio a chi non apparteneva al ‘circolo’; diverso era però il caso contrario, dove invece l’intellettuale “non organico” veniva guardato con diffidenza se non, prevalentemente, reso trasparente oppure ostracizzato. Questo il quadro generale del sistema culturale italiano fiano ad anni recenti. Ma che ne era della cultura alternativa, intendo dire “di destra”? Fino al 1994 questa non fu altro che una raccolta di singole individualità che procedevano in ordine sparso in un clima da catacomba. Per questi personaggi sarebbe stato difficilissimo, se non impossibile entrare sia pur a titolo di ospiti tollerati nel salotto buono dell’intellettualità italiana. La destra non ebbe modo, né visione, per disegnare una politica culturale, una strategia, un programma complessivo.

L’inaspettata prevalenza elettorale di Berlusconi nel 1994 non servì a cambiar le cose. In realtà il tanto sbandierato liberalismo, o liberismo, di cui ci si riempiva la bocca, in ambito culturale non ebbe modo neanche di vagire: in luogo di un ipotetico Istituto Gramsci di destra sorsero le università telematiche per conferire ‘lauree’ a buon mercato o, ancor più, scomposti programmi televisivi d’intrattenimento banale. È un peccato che sia mancata una dialettica tra le due culture; questa dialettica, infatti, è il sale del progresso intellettuale e laddove v’è pensiero unico non ci si allena in palestra ma si ubbidisce in caserma.

Veniamo ora al piccolo mondo evangelico italiano. Come questo s’inserì in tale contesto più generale? Premessa: il protestantesimo italiano può grossolanamente ma effettivamente dividersi come una mela; da un lato quello ‘storico’ composto da valdesi, metodisti e battisti (dell’UCEBI), dall’altro quello che definirei ‘conservatore’, una ben più numerosa galassia nella quale primeggiano per numero pentecostali, assemblee dei fratelli e raggruppamenti doversi. Qui per troppo tempo vigoreggiò l’idea che la politica fosse “cosa sporca” dalla quale il credete avrebbe fatto bene ad astenersi. Il pianeta ‘storico’, organizzato in Federazione della Chiese Evangeliche Italiane seguì, invece il dibattito politico italiano pervenendo nel contesto del mitico ’68 a un avvicinamento, che in molteplici casi poté dirsi affluenza o confluenza, all’area di sinistra, per meglio dire comunista, con una minuta riserva indiana di socialisti. La chiesa, come si dice con termine approssimativo e inadeguato ma utile, si ‘politicizzò’. Sta di fatto che chi, nei luoghi decisionali di tale protestantesimo, non s’adeguò divenne trasparente o rimase fuori dalla stanza dei bottoni e persino dei bottoncini. L’identità teologica delle denominazioni, chiamate a corroborarsi proprio in virtù della loro policromia, venne meno e l’impegno politico politicante fu prioritario terreno sul quale agire. Basti ricordare la vicenda dei metodisti italiani la cui storia nell’imminenza dell’integrazione con i valdesi del 1975, fu rievocata quasi come quella di una succursale del partito socialista, relegando nel dimenticatoio le peculiarità wesleyane che avevano distinto quel meritevole movimento e che avrebbero invece potuto recare ai fratelli valdesi il dono di una diversità complementare. La Facoltà Valdese di Teologia non fu estranea a tali accomodamenti e in luogo d’aprirsi quale palestra di voci diversificate dell’evangelismo italiano, fu attenta a trasmettere a un circoscritto numero di maestri (pochissimi) e di allievi (pochi) il verbo barthiano coniugato alla luce del politicamente corretto italiano. Sta di fatto che un patrologo e storico delle antichità cristiane come Fausto Salvoni, eminenza cattolica convertita all’evangelismo, non ebbe colà quello spazio che avrebbe fruttuosamente potuto ricoprire ma fu costretto nella sua Milano a crearsi una propria piccola ma benemerita Facoltà sostenuta, invece, da alcune Chiese di Cristo del Texas.

La trasmissione televisiva Protestantesimo è stata, ed è, una vetrina del protestantesimo italiano. Ebbi modo di prendervi parte per impulso del compianto Giorgio Bouchard, allora presidente della Federazione. Bouchard era uomo dalle idee politiche chiare, amava la chiesa, la causa del vangelo ed era solito guardare a 360 gradi inserendo in un progetto meritevolmente ‘ecumenico’ di crescita del protestantesimo italiano anche chi non afferiva alla galassia valdese o corrispondeva al suo sentire politico. Tra costoro v’ero io e Salvatore Loria, giornalista e regista pentecostale reduce da recenti studi nelle università degli USA. Fu a Roma, durante una riunione redazionale ampiamente partecipata che avemmo modo d’ascoltare l’esternazione di un dirigente valdese il quale asserì perentoriamente: “In questa sala siamo tutti comunisti o anche più a sinistra”. Ci sentimmo come una marmellata alla quale veniva applicata sommariamente un’etichetta di colore unico. L’imbarazzo fu rotto proprio dal Loria il quale, con libertà di linguaggio e stile di gentiluomo, esclamò rapidamente: “Parla per te, poiché quanto a idee politiche ognuno ha diritto di avere le sue; la tua supponenza è ciò che ha indotto la sconfitta elettorale del tuo partito”. Piombò su di noi tutti un silenzio tombale, un guardarci increduli; sono persuaso che se Loria avesse bestemmiato si sarebbe creato meno imbarazzo. Poco dopo a tavola ebbi modo di ascoltare frasi del genere: “Non sono d’accordo con Loria, per carità, tutt’altro! Però devo ammirarne la franchezza e la sincerità”; tali parole venivano sussurrate a voce bassa e con sguardo nel piatto: il Grande Fratello avrebbe potuto ascoltare e annotare!

Non sono sicuro che la destra attualmente al governo riuscirà a organizzare una propria presenza culturale facendo rete e promuovendo il suo esercizio in sedi varie e opportune. Sono operazioni che non s’improvvisano. Lasciatemi dire, però, che me lo auguro poiché la cultura consiste in dialettica tra opposti e quando questa manca v’è solo stagnazione. Egemonia significa “non cultura”. Sarebbe inoltre paradossale se in una società dove si auspica l’affermazione di un multiculturalismo etnico si negasse quello culturale interno a noi stessi italiani. Le compagini governative se volessero potrebbero e, pertanto, è il caso di dire con il padre Dante: “Qui si parrà vostra nobilitate”.

Quanto alle chiese evangeliche mi sembra di scorgere che l’ancoramento delle denominazioni storiche a grandi battaglie politiche della sinistra di un tempo sia passato in secondo ordine, affondate tali battaglie con i vascelli stessi dei partiti affondati o a malapena galleggianti. Ciò spiega il ripiegamento su alcuni temi prevalentemente relativi alla sfera delle libertà individuali, diciamo pure all’esercizio dell’afferenza di genere: Desinet in piscem mulier formosa superne.

Recuperi la chiesa, invece, la sua carica profetica sia, cioè, in altri termini, araldo di una proposta spirituale dapprima e quindi, conseguentemente, anche culturale che possa essere voce convenevole e attraente nella società attuale. Non si vada a carico delle traiettorie di partiti ma si testimoni quel radicamento valoriale che sembra carente in questi stessi, prima ancora che nella società.


[1] In tale contesto l’edizione dell’epistolario di Cosimo I de Medici di un giovane Giorgio Spini ebbe favorevole recensione; cfr. L. Tronfi, Il “Primato” di Giudeppe Bottai: culture e politica (1940-1943), Ravenna 2011.

[2] Il testo si legge in B. Croce, Propositi e speranze (1925-1942). Scritti vari, Bari 1943, pp. 7 ss.

[3] A. Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti italiani, Roma 2014.

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