Ho ricevuto in (gradito) omaggio il succoso volumetto di D.J.A Clines e I.H. Marshall dal titolo La predestinazione nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Esso consiste in due distinti contributi che, nell’originale inglese, figuravano insieme ad altri in un ampio volume miscellaneo sul tema. Il carattere di excerpta, che solitamente condiziona il discorso, in questo caso lo favorisce. L’Editore, i Gruppi Biblici Universitari, l’ha inserito nella collana “Approcci alla teologia” rendendolo fruibile a un costo contenuto (8 euro, pp. 62). Poche pagine di postfazione esprimono il pensiero dell’editore (G. Di Gaetano), quasi in diretto dialogo con il lettore italiano.
Ritengo che la scelta editoriale sia opportuna, e ciò per un motivo generale e un altro in particolare. Quanto a quest’ultimo è G. Di Gaetano stesso a esplicitarlo: il libretto prosegue l’analisi di un tema specifico che era stato oggetto di alcune pagine della corposa Teologia sistematica di Wayne Grundem precedentemente edita dai GBU, ma lo fa in modo diverso e, per così dire, complementare. Se l’impianto del Grundem è di tipo riformato (leggasi: calvinista) quello di Cline e Marshal preferisce non impelagarsi nella storica diatriba Calvino / Arminio. Questa scelta va a tutto merito della linea editoriale (e direi anche didattica) dei GBU che si pone in un àmbito di servizio rivolto all’evangelismo italiano (di cui rispetta colori e sapori diversi), non già di ‘ammaestramento’ (leggasi: colonialismo) secondo una particolare scuola di pensiero. Da qui il timore che si esprime (p. 62) per la “tentazione identitaria”. In verità – e qui mi permetto di integrare quanto leggo – la definizione di identità è perniciosa quando s’abbina a un malinteso senso di “sana dottrina” che deve imporsi su tutto il resto, laddove è, a mio modo di vedere, benvenuta se contribuisce a restituirci una fede salda nella sua sostanza salvifica ma rispettosa di sensibilità e di tradizioni storiche diverse. Il seguace di Gesù mai dovrebbe temere le diversità e io stesso, sempre in casa GBU, parlai di Cristianesimi nel’antichità ricorrendo al plurale.
Un tema come quello della predestinazione si presta bene (e il fenomeno è sotto i nostri occhi) a suscitare diatribe e scomuniche. Paolo Ricca tempo fa diede alle stampe un acuto scritto dal titolo Il neocalvinismo in Italia nel secolo XX dove passava in rassegna il robusto pensiero di autori quali Giuseppe Gangale, Giovanni Miegge, Vittorio Subilia e Valdo Vinay. Io avrei aggiunto anche Giorgio Tourn al quale dobbiamo la versione in italiano delle Istituzioni del riformatore ginevrino edita dalla UTET. E ciò riguarda il protestantesimo ‘storico’. Non manca, però, nel panorama tracciato dal Ricca, un’attenta menzione delle pattuglie ‘evangelicali’ che abbinano alla riflessione sul pensiero calviniano il dispiegamento di uno zelo costante e mirante a condurre in questo recinto di ‘ortodossia’ ogni evangelico che s’incontri per strada e che non si sia ancòra riformato, cioè uniformato. Si agisce così in coerenza con le proprie premesse di pensiero e di fede secondo le quali la casa costruita sulla roccia è quella disegnata da Calvino e dai suoi epigoni del Seicento, non già tutto il resto ritenuto fluido, non scritturistico, da emendarsi. Così in partibus infidelium si dispiega una missione che scorre, o meglio, corre su un duplice binario: 1. Ritornare al pensiero ‘riformato’; 2. Definire stabilmente una teologia che sia sistematica. Missione encomiabile questa, se però si facesse anche presente che: 1. La Riforma protestante non coincide col pensiero del solo Calvino anche se, in senso tecnico, ‘riformato’ è sinonimo di ‘calvinista’; 2. Tracciare una teologia sistematica è un tentativo nobile del credente, ma pur sempre un tentativo con tutte le fragilità delle umane imprese.
Se si prende in considerazione la produzione editoriale di questi vivaci nostrani vivai di pensiero calviniano (dalle iniziative editoriali più rispettabili fino ai deliri che funestano la navigazione in internet) ci si rende conto di trovarsi di fronte quasi sempre agli autori della “Scolastica protestante (calvinista)” del secolo XVII. Questa stagione vide all’opera teologi che vollero inquadrare in sistema organico e coerente i dati della Scrittura, dell’umano raziocinio, dei padri riformatori. L’operazione venne svolta nel greve clima di guerre di religione, inquisizioni, scontri di potere, mutamenti di economie. Nella fattispecie alcune questioni lasciate aperte da Calvino vennero definite legnosamente, illudendosi sia di poter con l’umana ragione illuminare ogni anfratto della Rivelazione, sia di realizzare uno spartiacque tra la “sana dottrina” e la blasfemia da incarcerare o avviare al patibolo. Tempi oscuri e infelici come quelli che videro la celebrazione del Sinodo di Dortrecht che macchiò l’Olanda di violenza e di sangue in nome di canoni ispirati al pensiero di Calvino. Si pensi, ad esempio, a un Francesco Turrettini (1623-1687) che pose tali canoni a fondamento della sua enorme opera, facendo ogni teologumeno discendere dal primum della sovranità di Dio manifestata proprio nella dottrina della doppia predestinazione. A nulla sarebbero però valsi i decreti che egli pur volle promulgati dalla Venerabile Compagnia e che impedivano a tutti di parlare soltanto di dottrine contrarie: il suo stesso figlio Jean Alphonse (1671-1737), di temperamento più sereno e di visione più ampia, si prodigò affinché queste vessazioni inferte dal padre ai dissidenti fossero abrogate.
Ma torniamo al nostro libro. Il contributo del Clines sull’AT ha il grande pregio di non tentare una impossibile teologia ‘sistematica’ della predestinazione, che avrebbe dovuto ricavarsi da una quantità enormemente varia di libri e di tradizioni teologiche d’Israele. Clines si piega con umiltà e acribia su ogni diversa pagina biblica per evincere il pensiero dell’autore valutando opportunamente il genere letterario. Ne emerge un concetto chiaro, tra i tanti: l’elezione d’Israele, lungi da essere un privilegio conferito a un’etnia particolare per misteriosi suoi meriti, è un onere che si traduce in un servizio che Israele deve recare all’umanità tutta. Gli ebrei non sono certo sic et simpliciter infallibilmente preordinati a un sicuro avvenire di gloria, su di loro grava l’enorme responsabilità dell’accettazione del patto, della scelta e della perseveranza nella scelta. Dal canto mio avrei sviluppato qui il motivo della personalità corporativa che giova a intendere le dinamiche non solo d’Israele ma di tutto il quadro sociale del Vicino Oriente Antico: a differenza del nostro moderno individualismo esasperato, quelle società avvertivano loro stesse come solidali per cui il destino di uno, specie se con funzioni di guida, diventava il destino di tutti. Di qui, anche, la teologia del “peccato originale”.
Il contributo del Marshal si può nettamente tagliare in due parti. Nella prima egli è filologo che pesa nel NT i verbi greci che gravitano nell’orbita di ‘determinare’, ‘preordinare’, ‘predisporre’, etc. Nella seconda promette di non voler fare opera di teologo ma poi contraddicendosi, per fortuna del lettore, lavora proprio da teologo e palesa come sulla trattazione del nostro tema gravi un preliminare problema di linguaggio: noi parliamo di predestinazione secondo le nostre umane e limitate categorie mentali, ma il tutto vacilla quando applichiamo queste al discorso su Dio. Noi nel tempo, Dio nell’eternità. Da qui egli fa derivare le approssimazioni, le aporie e le false speranze rilevabili nel verbo calvinista che di sistematico ha ben poco, ma non cerro per colpa sua.
Un pregio accomuna i due contributi: quello di non tagliare le cose con l’accetta ma di distinguere volta per volta, quello di non lanciarsi immediatamente in formule generali e generiche ma definire le diverse facce d’un problema, con umiltà e, principalmente, con l’animo di chi si sottopone alla Scrittura non usandola come arma brandita al fine di far sottoporre gli altri a una particolare dottrina spacciata per oracolo di Dio.
In definitiva, i lettori che cercheranno nel volumetto l’esito dello scontro calvinismo / arminianesimo rimarranno delusi perché di tale scontro (grazie a Dio) non v’è neanche memoria. Invece dalla lettura trarranno profitto quegli evangelici della nostra Italia odierna ai quali gioverà veder ribadita una verità: la fonte della rivelazione è la Scrittura così com’è; ogni sua sistemazione o adattamento sistematico, per quanto pregevole, sarà sempre un umano tentativo che dovrà servire ad aiutarci a capire, giammai indurci a dividere.
Consiglio vivamente la lettura di queste poche pagine, ne usciremo tutti un po’ più maturi, predestinazionisti e non.
Giancarlo Rinaldi