Un membro del nostro Gruppo di studio sulla storia del movimento pentecostale il quale, nelle sue esternazioni, è quasi sempre sferzante ma mai banale pone il quesito: i pentecostali sono protestanti?
La domanda è del massimo rilievo se solo si pensi alla consistenza quantitativa del movimento pentecostale, nel mondo come in Italia, e all’urgenza di collocare il fenomeno nell’analisi teorica e nella concreta realtà sociale.
Negli anni della persecuzione antipentecostale (1935-1955) molti, molti credenti appartenenti a questo movimento si proclamavano “non protestanti”. Lo facevano perché erano privi di istruzione e, inoltre, mantenevano le distanze dal culto protestante storico, a loro avviso troppo ‘freddo’ e ‘formale’. Questa era musica per le orecchie dei persecutori (autorità tanto di polizia quanto cattoliche) le quali erano tenute a tollerare i protestanti ma non un quid non ben identificabile. Sulle differenze tra pentecostali e protestanti ‘storici’ hanno insistito i numerosi apologeti cattolici impegnati in quegli stessi anni ad arginare il fenomeno del proselitismo protestante.
È triste ricordare che negli anni difficili per i pentecostali le chiese valdesi rimasero per loro chiuse in forza di un generale prudente loro convincimento in tal senso. Ma è molto più gioioso ricordare che i grandi apostoli della libertà pentecostale, intorno alla metà degli anni ’50, furono il valdese G. Peyrot e il metodista G. Spini verso i quali il debito di riconoscenza dei figli della Pentecoste non sarà mai adeguatamente onorato.
Il valdese Giorgio Bouchard, uomo che ben conosce i camminamenti del protestantesimo italiano e li ama, con grande lucidità d’analisi, ha sempre avuto a cuore l’edificazione di un ponte tra le due realtà, ed ha saputo disegnarlo nei suoi progetti non sempre ascoltati con le ragioni del cuore e della mente.
Vi fu poi, intorno alla fine degli anni ’80, una garbata polemica (di quelle che ci auguriamo avere spesso) tra il sociologo Massimo Introvigne e il presidente delle ADI pastore Francesco Toppi. Il primo catalogava il pentecostalesimo in una quarta ondata protestante, dopo la Riforma (sec. XVI), il risveglio metodista (sec. XVII) , il risveglio di santità (sec. XIX) per poi dichiarare un (legittimo) senso di smarrimento di fronte a certe pieghe anarcoidi e malamente teatrali del pentecostalismo USA e sudamericano. Toppi reagì collocando il ‘suo’ pentecostalesimo nell’alveo dei precedenti movimenti di risveglio illustrando, in ispecie, il cordone ombelicale sia con il metodismo sia con il movimento di santità (cfr. la sua biografia di M. Nardi). Introvigne, da uomo di cultura e gentiluomo convenne poi sulle ragioni del suo dialogante.
Il pentecostalesimo ha una spina dorsale teologica?
Se ci basiamo su osservazioni sociologiche e fenomenologiche, su grida e convulsioni in chiesa, risponderemo ‘no’ e, con il sociologo italiano Pace, lo relegheremo tra le sette che infestano il panorama nostrano.
Se studiamo la storia e la storia della teologia risponderemo ‘sì’ e riscontreremo che questa spina dorsale è quella stessa della Riforma, con i suoi cinque Sola. L’essenza del pentecostalesimo non sono certo i decibel con cui si canta o il pregare gridato e confuso, né tantomeno la relegazione delle donne in sedili a parte. No. Questa essenza sta nella salvezza per fede e nella santificazione per grazia, come crisi di un momento (Battesimo di Spirito Santo) e come percorso lungo. Questa essenza sta nella sola Scriptura. Le ‘lingue’ sono segno, un segno che vale soltanto perché indica una realtà significata, che è la pienezza di Spirito. Senza quest’ultima le ‘lingue’ sono orpello spettacolare e pleonastico.
Il professor Sante de Sanctis, padre della psichiatria italiana, confutando nei fatti la perizia Zacchi che relegava il pentecostalesimo nelle perversioni nocive alla razza, scrisse che “il fenomeno avrebbe potuto avere un gran rilievo in futuro” (si era negli anni ’30) “se avesse avuto guide capaci e preparate”, noi aggiungiamo esplicitando: che avrebbero potuto dare Formazione solida al popolo dei credenti.
Tutto qui, cari lettori, il pentecostalesimo odierno, in Italia ma anche altrove, è come il mitico Eracle al bivio: 1. chiudere porte e finestre per paura dell’aria nuova, anche quella fresca e salubre? 2. Respirare a polmoni più ampi, riscoprendo storia e identità dottrinale, su testi di qualità e con percorsi formativi adeguati e qualificati? Le conseguenze della scelta n° 1 sarà il regredire nelle caverne, limitandosi a gridare ‘amen’ a ogni colpo di tosse in chiesa, a subire un legnoso fondamentalismo che è estraneo al DNA del risveglio wesleyano e della teologia di santità. Le conseguenze della scelta n° 2 sarà la trasformazione di un cospicuo aggregato umano in un popolo consapevole di ciò che ci circonda e, pertanto, in una benedizione per l’intera società italiana che necessita di un messaggio di fede e di ‘potenza’.
Non si abbia paura della Formazione, se ne tema invece la carenza.
La scelta della direzione di marcia è improrogabile: bisogna inoltre che il pentecostalesino prenda le distanze da telepredicatori miliardari, guaritori da palcoscenico, imbonitori di quella grande cafonata che è il cosiddetto “vangelo della prosperità”. O si è ‘Chiesa’ o “fenomeno da baraccone”. Tertium non datur.
Io, che credo di conoscere sia l’uno che l’altro pianeta, intendo il protestantesimo storico e la galassia pentecostale, punto specialmente sui giovani. Come insegnante ho appreso che la duttilità mentale, l’entusiasmo, la carica innovativa propria dei più giovani, se affiancate dalla fede, sono una risorsa benedetta. Di giovani ne conosco tanti, ma tanti che mi telefonano e cercano orientamenti. Il futuro è in loro, basta recuperare la memoria e l’identità, coniugarle con l’entusiasmo degli anni verdi e con il coraggio di chi intraprende sentieri nuovi. Apparentemente nuovi, in realtà antichi: il sentiero stretto e in salita, il più difficile, ma quello che dischiude panorami più ampi e belli.
Giancarlo Rinaldi
Eccellente analisi. Proprio questo secondo sentiero stretto dalle viste mozzafiato sto cercando, anche se non sempre è facile convincere le masse più restie al rinnovamento a seguirti. E con rinnovamento intendo un reale e profondo cambiamento nel modo di concepire prima di tutto la propria identità di cristiani (non evangelici né pentecostali) e poi la propria missione nel mondo. “Risveglio” va ben oltre lo stile dei canti o dei vestiti, le iscrizioni ai raduni o i numeri di battesimi (di qualsiasi tipo).
Non nascondo che auspico un lontano futuro in cui tutti gli evangelici (non solo a livello di organizzazioni interdenominazionali, ma a a livello di chiese) possano riconoscere di provenire da uno stesso seme, di essere legati da una sola fede e un solo Signore, e che possano quindi rimuovere le barriere e accettare le rispettive differenze di costumi e metodi, in favore del comune obiettivo che condividono: la salvezza delle anime, il progresso del regno, la gloria di Dio. È possibile questo?