Zia Luisa o, per meglio dire, la prozia (17.8.1884 – 30.12.1971) era la sorella di mia nonna materna Laura. E’ la figura femminile che, insieme a mia madre, ha più inciso nella mia formazione lasciando una impronta indelebile. E’ stata letteralmente una “seconda madre”. Nubile. Era dotata di un senso del dovere e dell’autodisciplina poco comune; il tutto sublimato in una mistica dell’ordine inteso come conservazione di documenti e memorie. Zia Luisa, infatti, era persuasa che l’ordine interiore dovesse proiettarsi necessariamente anche nell’ambiente circostante… e viceversa.
Sulla scorta delle proprie personali varie esperienze di vita (visse 87 anni), reputava la storia come un processo di progressiva decadenza dei valori e dei comportamenti umani, al quale processo avrebbe potuto porre argine soltanto una educazione nutrita di ottimi esempi familiari e di aristocratica sensibilità, frutto quest’ultima non di benessere economico, ma di trasmissione ereditaria. Riteneva che la formazione dell’individuo umano fosse già compiuta, nei suoi aspetti strutturali e sostanziali, nei primissimi anni di vita. In tal senso intuì, pur senza averne alcuna cognizione scientifica, le funzioni dei patrimoni cromosomici e del DNA che la scienza avrebbe poi in sèguito definito. Era completamente disinteressata alla dimensione economica e infatti non ricordo di averla mai vista con danaro in mano. Ciò la portava a ritenere che le monete coniate in varie epoche fossero spendibili tutte come valuta corrente. Negli ultimi anni sessanta mi diede alcuni tornesi borbonici dicendo che avrei potuto comprare qualcosa per me. Conservo ancòra gelosamente quelle monete le quali, silenzioasamente, mi ricordano la differenza abissale che separa la mia prozia da quanti (e sono moltissimi) oggi ritengono che una persona si misuri esclusivamente con il metro del danaro che possiede.
Mi ritornano alla memoria, indelebili, alcuni particolari. Negli anni ’50 nel palazzo di Via Pasquale Scura dove abitavamo v’era un solo televisore, quello della nostra famiglia. Pertanto quasi ogni sera le zie venivano a vedere la televisione da noi. Intorno alle 21, quando avevo già finito di cenare, veniva il momento di andare nella stanza da letto che si trovava in tutt’altra parte della casa. Ero bambino e zia Luisa era addetta ad accompagnarmi a letto ed a farmi addormentare. Era un rituale ben preciso. Si iniziava con le preghiere da recitarsi nel medesimo ordine: il Padre nostro, l’Ave Maria, la preghiera all’angelo custode e quella a beneficio dei defunti. Poi veniva il momento di indossare il pigiama, e lo si faceva con una gestualità tale da non lasciare mai a nudo le mie parti intime. La zia presenziava e vigilava fino a quando non mi fossi addormentato. Luisa m’insegnò a ripiegare con estremo ordine tutti gli indumenti; infatti, gettarli alla rinfusa o poggiarli non piegati su una sedia avrebbe significato venir meno a ciò che ci si aspettava da me, trasgredire un rituale che sanciva l’ordine esteriore e interiore. Ricordo che imparai a piegare e conservare debitamente gli indumenti ancòra prima di andare a scuola; non ne sono sicuro, ma credo di aver interiorizzato la lezione poco dopo aver imparato a camminare. Ancòra oggi lo spettacolo di una stanza con vestiti sparsi qua e là mi dà un inspiegabile e irrefrenabile senso di angoscia e di avvilimento. Si tratta di una sensazione del tutto infondata, ma istintivamente la forza di quell’antica abitudine mi rende persuaso che se mia moglie vedesse i miei vestiti gettati alla rinfusa perderei buona parte della sua stima e le darei un dispiacere.
Dopo aver indossato il pigiama, essermi coricato e aver detto le preghiere avevo finalmente diritto a ciò che più attendevo: i racconti. Le favolette variavano, ed erano spesso tratte, come mi chiariva la zia, dal famoso Giannettino, un libro per la gioventù in voga intorno alla metà dell’Ottocento quale testo unico per l’istruzione. Come fare a dimenticare questo Giannettino che, trasgredendo ogni norma di comportamento civile, camminava lanciando in altro le ciliegie per poi ingoiarle a volo e così facendo si soffocò?
Come dimenticare la favola delle Tre melarance che, con le metamorfosi di cui narrava, mi trasportava puntualmente in una dimensione magica? La storia derivava da un antichissimo repertorio di fiabe campane: Lu cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, vissuto nel secolo XVI. Si narrava di un principino che aveva ricevuto una maledizione da una malvagia strega e, pertanto era sempre triste. Fu poi una fata buona che disse ai suoi genitori che egli, per uscire da tale prostrazione, sarebbe dovuto partire alla ricerca di tre fatate melarance. Però, attenzione! L’albero era custodito da una bestiaccia che quando aveva gli occhi chiusi era sveglia, quando li aveva aperti invece dormiva. Inoltre questi tre frutti avrebbe dovuto aprirli soltanto in presenza di una fontana. Dopo aver colto le melarance il principino, trasgredendo la raccomandazione, ne aveva aperto ben due dalle quali erano volate via due farfalle che disperatamente avevano chiesto, invano, di bere: “Acqua, acqua, acqua!”. Ma la terza volta il principino volle essere ligio alla raccomandazione e aprì il frutto presso una fontana; così alla farfalla che uscì fu facile bere a sazietà. Ma quale non fu la meraviglia del principino nel vederla trasformarsi in una bellissima fanciulla. Amarla a prima vista e prometterle subito le nozze furono la stessa cosa. Ma il principino si allontanò dalla fontana per prendere il suo cavallo. A questo punto una malvagia, brutta strega si avvicinò alla bella e, carpendole la fiducia, finse di volerla pettinare e le infilò uno spillone tra i capelli, dietro le orecchie trasformandola in un colombo che volò subito via. La vecchiaccia si collocò al posto della fanciulla e attese il principe. Quale non fu la sorpresa e lo sgomento di quest’ultimo nel trovare tanta diversità! Così alla domanda del principe, la strega rispose che era la stessa fanciulla che aveva poco prima ricevuto la promessa di nozze e, inoltre, cantilenò mentendo: “è venuto il vento e mi ha cambiato portamento, è venuto il sole e mi ha cambiato colore”. Il principe, comunque, la fece montare sul suo cavallo e la portò a palazzo per le nozze. A questo punto io, immedesimandomi nell’infelicità del promesso sposo, chiedevo sempre “ma perché non la lasciava lì per la strada e non se ne tornava da solo al palazzo reale?”. La risposta della zia era sempre la medesima: “Perché aveva dato la sua parola di gentiluomo e non poteva venir meno”. Questa risposta mi suonava come un pesante precetto o, se preferite, come un plumbeo presagio di ingrati adempimenti ai quali anche io – da gentiluomo – sarei dovuto andare incontro. Infatti la zia mi raccomandava pressantemente, e in ciò agiva in coro con le sorelle e i fratelli suoi, che un gentiluomo non deve mai venir meno alla parola data e che se così io avessi fatto avrei infranto una tradizione antica.
Ritorniamo alla fiaba. Per farla in breve, dopo il disappunto dei genitori, si prepararono le nozze. Ma ogni giorno un colombo picchiava alla finestra delle cucine reali e chiedeva: “Cuoco, cuoco della mala cucina, che fa il re con la schiava saracina?” Poi mangiava un po’ di cibo regalando al cuoco una penna d’oro e dicendo “papparella a me e penne d’oro a te”. Il colombo era, in realtà, la bella fanciulla che veniva ad informarsi sul suo amato. Un giorno quest’ultimo si trovò per caso in cucina e, ammirato del colombo dalle penne d’oro, iniziò a carezzarlo toccando così per caso con le dita lo spillone. Fu istintivo levarlo con un gesto rapido e deciso, e d’incanto… ricomparve in tutta la sua bellezza la fanciulla che raccontò l’accaduto. A questo punto l’epilogo della favola configurava il castigo per la “schiava saracina” e le nozze felici del principino.
E poi ricordo ancòra la favola del contadinello il quale, mosso a pietà di un piccolo serpente che stava per morire di freddo lo mise nella sua camicia per riscaldarlo e poi fu dopo poco morso a morte: era una vipera ingrata! Come, inoltre, dimenticare la favola del grilletto e della formichina che narrava del loro matrimonio e poi della morte del grilletto? Ricordo ancòra i miei pianti abilmente soffocati quando ascoltavo della statua che era andata in testa al grilletto e l’aveva ucciso; e poi la scena finale, cantata: «tutti i grilletti col cappuccetto nero, in fila andarono al cimitero». Ma i racconti che più mi piacevano e che richiedevo spesso alla zia erano le storie di “quando voi eravate piccole”. In realtà si trattava dei ricordi d’infanzia della zia. Si apriva così una finestra sul mondo di fine Ottocento che mi diventava familiare nei suoi aspetti di dettagliata vita quotidiana. Erano forse le prime, indelebili lezioni di storia che mi venivano impartite. Anche filastrocche e cantilene erano ‘datate’ e ricordavano motivi tutti anteriori alla prima guerra mondiale; si andava da La bella Gigogin, cantata dalle truppe lombardo piemontesi sin dal 1858, quando fu presentata al teatro Carcano di Milano; e poi “il piscinin che l’era / el ballava voluntera / el ballava in su un quattrin / tant che l’era piscinin”. Dove la zia avesse tratto questi motivi del repertorio lombardo piemontese non saprei dire con certezza. ma erano motivi a lei cari e presumo che siano stati connessi alla prima guerra mondiale alla quale il fratello, di cui parlerò tra poco, aveva partecipato come colonnello di cavalleria di stanza a Parma, dove proprio con zia Luisa aveva vissuto alcuni anni. Ecco anche perché sentivo ripetere il ritornello: “Parma, città delle belle donne, noi siamo le colonne dell’università”. La più moderna era la canzone Mamma che Bixio e Cherubini avevano composto nel 1940, una melodia che sempre in me suscitava lacrime di commozione, soffocate allora per non dar di me stesso un’immagine languida.
Ma la lezione più profonda l’ebbi osservando il fatto che la zia non si era mai commossa nel narrare di guerre, pestilenze, difficoltà d’ogni genere che aveva atraversato. Tuttavia i suoi occhi si riempivano di lacrime soltanto quando rievocava il momento in cui, a quindici anni, aveva perduto la madre. Compresi allora che questo sarebbe stato realmente l’evento più lacrimevole che potesse capitare a una persona. Ma ero bambino e non vi posi soverchia attenzione. Fu la stessa vita, poi, che nel 1980, mi fece capire che ancòra una volta, anche in ciò, la zia non si era sbagliata!
Zia Luisa soleva condensare analisi di complesse situazioni in brevi aforismi dei quali ricordo i seguenti:
“Albero caduto: accetta! Accetta!”_,
“Un bene si riconosce perduto”,
“Chi ha mamma non piange”,
“Si sa come si nasce ma non si sa come si muore”,
“Dalle stelle alle stalle”,
“Bellezza fino alla porta, bontà fino alla morte”,
“Nascere signori è un caso; però è un bel caso”_,
“Gioco di mani, gioco di villani”,
“A tavola e a tavolino si riconosce il signorino”,
“Nel naso non ci sono marenghi d’oro_”.
“Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non tiene niente”.
L’ultimo anno di vita di zia Luisa fu funestato da un tumore alla gola che la portò dapprima al mutismo, quindi alla morte. In quei tristi mesi non potendo parlava affidava a fogli di carta l’espressione di ciò che voleva comunicare. Zia Elvira, sorella di mia madre, le fu vicina. Invano le chiedeva di non premettere sempre sul foglietto “per piacere” ma di scrivere solo “voglio bere”, zia Luisa fino all’ultimo non poteva rinunciare alle sue formule di cortesia.
Il pomeriggio del 30 dicembre del 1971, avevo 19 anni, mentre guidavo per via Toledo la mia (prima) automobile, una fiat 500 rossa; avvertii improvviso il richiamo di andare a via P. Scura_ e salire dalla zia. Feci appena in tempo a entrare nella stanza dove si trovava, avvicinarmi al capezzale e guardarla che dopo pochissimi minuti la vidi esalare l’ultimo respiro. Non sarò mai sufficientemente grato al destino per aver avuto il privilegio di essere educato dall’ultima marchesa di san Mauro.
Credo di aver deluso per un solo aspetto zia Luisa. Lei avrebbe voluto che io avessi esercitato la professione di avvocato, ma la mia scelta fu diversa… di ciò parlerò più oltre a proposito della famiglia Carfora.