Mettendo ordine tra le pieghe del mio Mac mi sono imbattuto in uno studio di Paolo Ricca il quale riguarda Il neocalvinismo del XX secolo in Italia. È tema d’attualità e poi, trattato da chi nel protestantesimo italiano è ben navigato “per antico pelo” merita attenzione. Per questo lo offro alla vostra lettura. Ma la tentazione di corredare il documento con qualche riflessione a mo’ di commento e forte… e vi cedo.
Paolo Ricca è valdese e, si sa, i valdesi aderirono al protestantesimo di tipo riformato (leggasi: calvinista) nel memorabile Sinodo di Chanforan del 1532. Eppure il verbo calvinista nudo e puro non ha mai risuonato, che io ricordi, sui pulpiti delle Valli e neanche su quelli dell’altra Italia da evangelizzare. Forse il non insignificante particolare della predestinazione (che tanta parte riveste nel sistema calvinista) mal si conciliava con l’esigenza ottocentesca (e oltre) di responsabilizzare ogni italiano a una scelta religiosa finalmente e totalmente libera e personale.
Per trovare italiani calvinisti allineati e coperti al verbo del Maestro, radicalizzato, dobbiamo rievocare figure cospicue come quella del Diodati, di Zanchi, di Turrettini. Ma sono italiani che vissero e operarono all’estero, che non ebbero a maturarsi sotto il sole caldo, il cielo gioioso, le terre aprìche d’Italia e che da tutto ciò, mi piace immaginare, non trassero quella umana e umanistica bonomìa laddove, nei nebbiosi rigori d’oltralpe s’infiammarono nel cuore e nella mente per un messaggio che prendeva le mosse dall’idea cardine di una sovranità assoluta che destina ab eterno e insindacabilmente a gloria come ugualmente a sofferenza.
Lo studio del Ricca riguarda, comunque, soltanto il secolo trascorso, il Novecento. Qui di calvinista ben attento ai testi troviamo quel Giuseppe Gangale il quale al sistema culturale cattolico avrebbe voluto che fosse stato contrapposto altro ‘sistema’ ed era gioco-forza pensare a Calvino ed alle sue Institutiones. Vi furono maestri valdesi attenti alla lezione calvinista e il Ricca li ricorda tutti doviziosamente. Si tratta di Giovanni Miegge, Vittorio Subilia e Valdo Vinay, teste pensanti che ornano quella che potremmo bene definire una tradizione protestante italiana. E, tuttavia, il Calvino di quest’ultimi è amato e rievocato con le lenti di un Karl Barth la cui teologia, emersa dalle rovine dell’ultima guerra, preferì insistere sulla chiamata in Cristo per tutti, proprio per tutti, allontanandosi così dalla lettera del riformatore ginevrino che non esitava a mettere in conto per la gloria di Dio fuoco e fiamme per i malcapitati pertanto, consegnati a una giustizia che (a loro riguardo) non avrebbe fatto sconti.
Così anche oggi in casa valdese Calvino insegna ancòra, ma a mediarlo è Barth. Ciò è vero anche se un recente bel volume (Salerno Editrice) del pastore valdese Emanuele Fiume rievoca la biografia del riformatore con attenzione ai documenti e sforzo di individuare direttamente il vero Calvino, quello della storia e, a tratti, quello della cronaca.
Non sarei completo se facessi a meno di menzionare una certa fortuna di Calvino al di fuori dell’àmbito valdese. A Ricca, da diligente osservatore, il fatto non sfugge ed è così che ricorda l’attività del Centro di Formazione e Documentazione Evangelica messo su con zelo dal pastore P. Bolognesi a Padova. L’iniziativa non nasce in terra valdese ma, se ben ricordo, nell’ambiente delle Assemblee dei Fratelli dal quale, poi, si distacca rapidamente. Questa attività, mi sembra di poter rilevare, è concepita anche come un correttivo alla traduzione barthiana di Calvino che, promossa dai valdesi, appare piuttosto una corruzione al Centro padovano. In quest’ultimo il calvinismo viene presentato, agli ambienti evangelicali, come il messaggio riformato tout court, l’interpretazione biblica fedele e rigorosa non “per antonomasia”, cioè per eccellenza, bensì per essere l’unica possibile. Laddove il Calvino dei valdesi è interpretato da Barth, quello dell’IFED è piuttosto mediato da Turrettini e Zanchi dei quali, con benemerita iniziativa, l’IFED promuove lo studio e l’edizione. Ci troviamo pertanto in piena scolastica protestante e, in particolare, calvinista e alcuni temi, totalmente estranei alla tradizione e (a mio modesto parere) alle necessità dell’attuale evangelismo italiano, vengono agitati come cartine di tornasole atte a saggiare la fedeltà al vangelo di contro a quelle che sono denunziate come pericolose derive verso l’umanesimo o, peggio ancòra, verso il relativismo fluido. Così i canoni del Sinodo (antiarminiano) di Dordrecht del 1618-19, che credevamo sepolti tra le macerie e i lutti della Guerra dei Trent’anni, tornano alla ribalta per indicare la retta via dottrinale, magari a calorosi predicatori pentecostali che, senza andar troppo per il sottile, giungono a reputare questi residuati bellici della teologia come essenziali nel loro lavoro di recupero dei bisognosi delle enormi periferie del nostro Sud. O, in casi meno nobili, forniscono alimento a un ego già ipertrofico di chi attendeva una patente di predestinato da Dio per signoreggiare un suo sèguito pur in carenza di una formazione adeguata. Ma, si sa, sono cose, queste, che capitano nelle migliori famiglie….
Concludo. Se è vero che il protestantesimo è un’esperienza di libertà, se è vero che in esso vivono anime diverse e complementari, dobbiamo anche ritenere che l’anima calvinista debba essere presente, attiva ed eloquente anche qui da noi in Italia. A patto che la si consideri per quella che è: un tentativo di teologi (cioè uomini) di intendere in modo sistematico i dati scritturali. Un tentativo, per quanto onorabilissimo, mai esaustivo e prevaricante su altri ma che si affianca ad altri, appunto, di diverso sentire ed indirizzo, per penetrare, per cercare di penetrare più compiutamente i molti aspetti profondi del pensiero divino: “In parte conosciamo e in parte profetizziamo” asseriva Paolo con esemplare umiltà. Ed era Paolo!
Post Scriptum: nel timore che a non tutti i miei lettori siano chiari i tratti caratterizzanti del pensiero calvinista, mi permetto di richiamare alla memoria quelli pertinenti alla dottrina della salvezza: Dio è sovrano assoluto; dall’eternità, per la Sua personale gloria, ha decretato che sia giusto punire atrocemente l’umanità tutta la quale ha derivato dal peccato di Adamo la colpa connessa e l’incapacità di far qualcosa per la propria salvezza. Tuttavia ha voluto a Suo insindacabile giudizio salvare alcuni tra questa massa dannata e ciò ha fatto non prevedendo alcunché né badando a disposizioni oppure opere diverse degli uomini, cioè non considerandoli migliori, ma salvandoli solo per Sua personale scelta; questa scelta è irresistibile e niente può fare l’uomo per passare da una condizione all’altra; a coloro che sono scelti Dio assicura l’impossibilità di perdere tale condizione, così come per chi non è eletto è assicurata l’impossibilità di sfuggire al castigo.
Credo che le cose stiano più o meno così. A chi gradisce… si accomodi!
Giancarlo Rinaldi