Con l’annuncio dello scioglimento delle Camere e la convocazione elettoraledel prossimo marzo l’interesse per la vicenda ‘politica’ italiana subisce un certo moto di accelerazione. In ogni caso rimane alta, molto alta la percentuale di chi si astiene dal voto preferendo attività più salubri. Fingiamo di meravigliarci e condanniamo, ma ben sappiamo, nel profondo del nostro cuore, che ciò che meraviglierebbe è il numero di chi ancòra ci crede e va a votare, armandosi di matitina e scheda per esercitare il proprio diritto politico e, nel momento stesso, per alienare la propria capacità di scelta a favore di persona che difficilmente conosce e che, comunque, non ha vincolo di mandato.
Nel frattempo, trafficanti di voti d’ogni colore s’accingono a rammendare le loro già collaudate reti alla ricerca dei pesci da friggere sùbito dopo.
Ogni persona di buon senso sa che questo sistema non è il migliore in assoluto ma che è il meno peggiore disponibile.
Accingiamoci, dunque, a fare qualche riflessione sul tema antico del rapporto (sofferto) tra gli evangelici italiani e la politica.
Prima di dir la mia, per quel che possa valere, elencherei una tipologia di atteggiamenti già in passato riscontrati. Mi perdonerete la sinteticità e la schematicità estrema.
1. La politica è una cosa ‘sporca’ noi non possiamo averci a che fare.
Questo atteggiamento ebbe precedenti alti e nobili nell’apocalittica giudaica e, quindi, cristiana antica. Imperversavano allora i regni babilonesi ed ellenistici, e poi romani; e ciò spiegava la radicalità della scelta. Ma anche in anni recentissimi ci capita d’incontrare ‘credenti’ persuasi loro d’esser così candidi e puri da non contaminarsi con gli affari di una polis nella quale, in ogni caso, abitano loro e i loro figli.
2. Evangelismo e scelta politica convergono, anzi fittamente dialogano, anzi decisamente s’identificano.
Questo è il profilo ottimamente illustrato da Gabriele De Cecco nel suo Fede e impegno politico. Un percorso nel protestantesimo italiano (Torino, Claudiana 2011) il quale, con dovizia di documentazione, offre i dati relativi all’innaturale connubio che, nella seconda metà del secolo scorso, funestò la gloriosa famiglia valdese proiettandola nella trincea della lotta di classe, nell’adesione al marxismo o, peggio ancòra, nella confluenza in parti politiche evaporate nel niente al sole della storia.
3. Creiamoci noi evangelici un partito politico!
È una tentazione oramai datata (chi dimentica il “PACE”?) la quale riflette il disagio di chi prima apparteneva al gruppo sopra descritto alla lettera ‘A’ e ora va nell’eccesso opposto. Dalla confusione tra la chiesa e il partito può derivare solo male, all’una e all’altro. Oggi la tentazione si ripropone maldestramente e, direi, anche tristemente eccitando appetiti integralisti.
4. La chiesa non è un partito, né un comitato elettorale, bensì un seminario di valori derivanti oppure organici al vangelo.
Ne deriva che in luogo di star tappati in casa oppure politicizzarci nell’una o nell’altra salsa, bisogna formare le coscienze specialmente dei giovani con quei valori e modelli comportamentali che oggi sono vieppiù carenti in politica. Poi mandar costoro, secondo le loro libere e sacre personali vocazioni, nel campo a lavorare. Sperando, inoltre, che essi s’indirizzino non in un solo fronte politico ma confluiscano in tutti, proprio tutti.
Riflessione finale. Mi rendo conto che la scelta ‘4’ è la più difficile, che offrirebbe i suoi frutti a lungo, lungo termine. E, tuttavia, è quella che mi sembra giusta.
Ogni evangelico s’impegni, dunque, nella ‘politica’, ma correttamente. Ciascuno nella sua trincea, sia quella del pulpito, quella dell’insegnamento, quella della diaconia, e tutto al fine, anche, di produrre persone pronte a quella della militanza in un partito, purché sia fornite di quella bussola valoriale che abbiamo attinto dal vangelo.
V’è bisogno che la vita politica italiana recepisca “buone novelle”, non già che il vangelo (la “buona novella”) si eclissi o scompaia in una fazione.
Dio ci aiuti!
Giancarlo Rinaldi