Accoglienza e integrazione. La Bibbia cosa ha da dire?
Sempre più spesso alti, altissimi prelati condiscono i loro appelli a gestire le colossali migrazioni di popoli a cui assistiamo con riecheggiamenti dalla Bibbia. Sono discorsi che pervadono i giornali e le cronache televisive. Non entro nel merito delle politiche relative all’immigrazione, non ne ho la competenza e anche se l’avessi non mi andrebbe di essere schiacciato dalle opposte tifoserie politiche che in Italia tengono banco.
M’interessa però formulare alcuni rilievi come storico del cristianesimo antico; mi permetto di farlo poiché nel campo credo di avere un qualche titolo a dir la mia, sia pur sommessamente.
Per comprendere il Nuovo Testamento è indispensabile (sì, avete letto bene: indispensabile) conoscere la società romana imperiale del secolo primo d.C. Altrimenti ci limiteremo a ripetere una girandola di versetti decontestualizzati che dicono tutto e il contrario di tutto.
In quell’epoca la religione coincideva con l’etnia. L’afferenza a quest’ultima determinava non solo il culto ‘civico’ seguito ma anche differenze insormontabili di cultura e sensibilità. Non parliamo delle differenze tra categorie e classi sociali (ordines), forti a tal punto da far distinguere le pene a seconda dell’afferenza del colpevole. In questa cornice consolidata da secoli, i filosofi stoici iniziarono a parlare di ‘cosmopolitismo’ auspicando una società nella quale l’uomo si riconoscesse tale a prescindere dalle sue particolari appartenenze sociali, geografiche, linguistiche, religiose. Seneca, contemporaneo di Nerone e di Paolo di Tarso, fu il più eloquente paladino del cosmopolitismo stoico. Tuttavia questa sarebbe stata una società di eletti, riservata all’aristocrazia dell’ingegno. Nella cosmopoli stoica si entrava in virtù della grande consapevolezza culturale sviluppata. Esclusi gli altri.
Paolo, in quel tempo, fu invece paladino di quella che potremmo dire la ‘cosmopoli’ cristiana: una società nuova e trasversale a quelle costituite: si entrava in grazia della fede in Gesù Cristo. Una volta entrati nella comunità di chi era stato chiamato da Dio (non dal suo bagaglio culturale) non v’era più né schiavo, né libero, né giudeo, né greco, né maschio, né femmina. Possiamo parlare di una ‘democratizzazione’ della cosmopoli stoica, quest’ultima riservata ai pochi intellettuali, la prima a chiunque esercitasse fede e questa soltanto.
In Paolo v’è dunque l’idea dell’abbattimento dei muri, della perfetta integrazione, anzi del superamento di ogni differenza tramite la nuova identità di cristiano. La comunità accoglieva e integrava tutti, proprio tutti, ma sulla base di un codice identitario, di requisiti di fede, di canoni etici molto ben precisi. La nuova società integrata e trasversale, accogliente e aperta aveva un suo codice molto ben preciso.
Oggi parlare di accoglienza e di integrazione guardando ai diversi ed ai molti che qui approdano e collegare sic et simpliciter il fenomeno all’esperienza cristiana delle origini significa commettere un falso o, almeno, essere approssimativi: l’accoglienza odierna accetta le differenze e la rispetta (e in ciò sta il suo pregio), tenta di integrare tra diversi e diversissimi. Non così quella cristiana che accettava sì i diversi ma al fine di creare una comunità nuova con un codice rigorosamente unico e da necessariamente da condividere.
Conclusione: si parli pure di gestione dei colossali fenomeni immigratori, ma lo si faccia nell’àmbito di un discorso politico o, almeno, non si tiri per la giacchetta la Bibbia e la storia antica. Sono àmbiti delicati che non guadagnano da generalizzazioni ad effetto, mirate a commuovere nell’immediato.
P.S.: S’intende che, a prescindere dai concetti di accoglienza e d’integrazione, la Scrittura si pronunzia molto chiaramente in merito all’orfano ed alla vedova, cioè al povero. Qui v’è un chiaro cogente dovere di aiutare; e non lo si fa per il solo senso civico, ma perché il cristiano nel povero e nel sofferenze ravvisa le sofferenze di Gesù Cristo stesso, sia esso bianco, nero, giallo o rosso.
Giancarlo Rinaldi